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Pubblicata il: ottobre 24, 2013 | Da: Redazione
Categoria: Racconti inediti e/o celebri | Totali visite: 1599 | Valorazione:

Occhio al medio ambiente | Invia per per e-mail

  
Redazione
Sono Manuel figlio di Felice, contento di portar avanti il lavoro di mio padre.
LA FOTO PIEGATA

Ricordo che ero stato emozionato per tutto il giorno, stretto in quel misero corpetto di cui allora andavo quasi orgoglioso, mentre a distanza di anni avrei lo etichettato come “oggetto da collezione” di quelli che furono gli anni Ottanta. Era il momento delle foto, da fare con i genitori,con i nonni,con gli zii,con tutto l’universo che può girare attorno ad un bambino di 8 anni che ha appena ricevuto la Comunione.
Il fotografo dopo quei momenti quasi rituali,suggerisce a me,ad un altro ragazzino coi capelli scuri e con un corpetto quasi identico al mio e ad un bambino biondo vestito diversamente come se non si fosse aspettato quell’evento, di metterci in posa per fare un paio di scatti ricordo. Iniziano subito sguardi d’intesa,piccole risate divertite,spinte che sembrano,almeno a noi,sollevare l’ilarità generale. Il caldo è notevole poiché il sole splende alto e sempre da lì sembra gioire insieme a noi bambini. Sollevo gli occhi come si fa quando sappiamo di essere osservati e quasi per gioco ci giriamo di scatto per catturare qualcuno che si sta nascondendo. Il sole evidentemente poco felice di essere stato scoperto sembra per un attimo aumentare la sua lucentezza. Per precauzione socchiudo gli occhi e mi metto una mano sulla fronte quasi a voler mimare la tesa di un cappellino da baseball. Ottengo un attimo di oscurità.

Riapro gli occhi e sto camminando in un vialetto che fende in 2 parti una lunga trafila di edifici per lo più bianchi e di aspetto decisamente simile oltre che cupo. Mi accorgo che tutto è molto diverso da quando ho chiuso gli occhi per il sole. E’ scesa la notte,sembra essere passata un’infinità dopo aver cercato per un attimo quell’oasi di freschezza e di riparo da quel sole. Continuo a non capire ma comincio a meravigliarmi di quanto quell’ilarità di pochi secondi prima sia sparita,di quanto mi venga da ritenerla infantile,di quanto i miei pensieri siano improvvisamente divenuti più ricchi,più profondi,tremendamente più difficili. Preso da inconsueto stupore mi sembra di barcollare più che di camminare ed allora decido che è molto meglio fermarsi per un attimo. Mi prendo la faccia tra le mani,mimo il gesto di sciacquarmi la faccia e mi stropiccio gli occhi,sicuro che quel nuovo momento di oscurità potrà solo giovarmi.

La nuova scoperta mi coglie ancora alla sprovvista. Il sole è tornato alto e i miei due compagni di scatti sono lì di fianco a me che mi guardano in attesa che io dica qualcosa. Ho un momento di pausa,forse di riflessione ma non mi viene in mente niente, i miei pensieri sono tornati quelli di prima,una sorta di rigogliosa primavera che attende una bollente estate tra fiori di ogni genere ed alberi che solo la fantasia di un bambino potrebbe concepire di colore rosso,blu e giallo. In mezzo a quel paradiso di immagini, la voce del fotografo ci invita e metterci uno di fianco all’altro quasi come una schiera di soldati pronti a partire per il Fronte. Ci stringiamo forte e ridiamo con ancora più decisione,tanto che il flash della macchina fotografica mi investe come fosse un getto d’aria fortissimo. Ne resto abbagliato.

Davanti a me vedo muoversi qualcosa che inizialmente non riesco a focalizzare,ma penso che sia solo un effetto della fotografia. Sento leggermente dell’umido nel posto dove mi sono seduto,ma non me ne preoccupo perché mi sto impegnando a mettere a fuoco ciò che ho davanti. E’ una grande vetrata con uno strano foro a metà altezza da dove una persona a sedere comunica con altra gente piegata in modo caratteristico per potersi far capire. Sento di nuovo la stessa sensazione di stupore che mi sale dentro,è una sorta di vuoto che mi sta riempiendo fino in fondo,che mi solleva da terra e che via via mi perfezione,mi migliora,mi rende più percepibile. Mi sembra di essere in uno di quei documentari che mostrano l’evoluzione della terra,dagli organismi unicellulari fino all’uomo,con una crescita costante,probabilmente resa con qualche effetto speciale. Resto perplesso per quest’ultimo complesso pensiero e mi blocco,ma non mi immagino neppure l’autentica scossa che provo quando una voce femminile mi dice “Muoviti Filippo,non vedi che non è qui?”. Mi volto quasi come se una tremenda paura mi avesse assalito e guardo il volto di quella voce, una donna mai vista prima ma con un aspetto incredibilmente familiare. Resto scioccato.

Sento una gran fitta ad un fianco e vedo la faccia del bambino coi capelli scuri che si scioglie in una smorfia di divertimento mentre mi prende in giro domandandomi perché ho quella “faccia da pesce lesso”. E’ mio cugino Cristian che se la ride di gusto mentre Andrea,il magrissimo ragazzino biondo che incarna la figura del mio migliore amico,ha un’aria compiaciuta per il mio disappunto. Seguono gesta di scherno e piccole rappresaglie,tutte condite,dentro di me,da un crescente senso di sollievo,da un particolare ma fortissimo ritorno ad un periodo profumato come gelsomino. Il fotografo sembra disperato perché cercare di riportare ordine a quel gruppetto di piccoli anarchici sembra un’impresa da titano. Cerca di sfruttare quel momento di gioia per fare una seconda foto di aspetto meno convenzionale e ci suggerisce di salire sull’altalena vicina. Quasi come fosse un richiamo irresistibile saltiamo fino a dove indicato cercando di non arrivare per ultimi perché la sfida,tra bambini,è una cosa da prendere decisamente sul serio. Andrea,il più pacato sembra non interessarsi molto al duello senza esclusione di colpi in corso tra me e mio cugino. La spunta lui ma va bene pure così tanto non sono ultimo. Affannato mi piego in avanti,metto le mani sulle ginocchia e fisso lo sguardo per terra.

Vedo immediatamente un particolare che mi colpisce perché non mi era sembrato di vedere le scarpe di qualcuno che evidentemente mi stava davanti. Sollevo gli occhi,sento che il clima intorno a me è cambiato, soffia un vento freddo dal sapore sinistro,aleggia un’aria senza peso,indefinita ma quasi carica di pioggia, sicuramente scura,come fosse notte. Non mi rendo conto di quella strana descrizione venutami in mente e con una meraviglia che lentamente si fa sempre meno inaspettata rivedo la donna di prima. E’ ansiosa,mi ripete di muovermi perché altrimenti non arriviamo in tempo e mi prende per un braccio. Il contatto mi genera strane sensazioni,una dolcezza unica nel suo genere,mi sembra di essere in un culla o addirittura di nuotare nel liquido amniotico. Appena riprendo a camminare mi accorgo che la donna non è sola,c’è un uomo con lei che sta in silenzio, ma sembra condividere con noi usando mille parole le stesse violente emozioni. Non mi sento bene,mi sento diverso ma sempre più consapevole di me stesso e di ciò che mi circonda,di quel paesaggio che io conosco ma che non riesco a ricordare. Sento di avere una scarpa sciolta e d’istinto mi piego per legarla rimanendo un attimo stupito da quanto fosse facile. Sorrido pensando a tutte le difficoltà che avevo incontrato nei giorni prima,ma immediatamente,quasi l’asfalto riflettesse le effigie di un mostro che da dietro mi fissa brandendo la sua arma mi accorgo di non avere le stesse scarpe della festa. Mi spavento e perdo l’equilibrio.

Tiro un sospiro di sollievo accorgendomi che mio cugino prontamente ha evitato che cadessi dall’altalena,ma quasi per sfida non lo ringrazio perché l’onore è l’onore a otto anni. L’ansia di prima mi è passata e non mi preoccupo di sentirmi strano di tanto in tanto, visto che una volta a casa avrò da cimentarmi con tutti i giocattoli che mi hanno regalato. Penso che inviterò pure Cristian ed Andrea,almeno mi divertirò ancora di più. Il fotografo ci dice di rimanere fermi così,con mio cugino in mezzo ed io e Andrea ai lati e quasi come se fosse un impulso irrefrenabile mi volto verso Cristian e lo fisso nei sui occhi neri di un colore quasi accecante.

Sento che una mano mi aiuta ad alzarmi e la stessa voce di donna mi dice”Ma Filippo,a vent’anni hai sempre bisogno che la mamma ti venga dietro per non farti cadere come quando eri piccolo?” La frase mi fa crescere una rabbia dentro infinita,non credo a niente di quella gran menzogna e mi preparo a gridare. Il problema è che non ne sento la necessità, perché più penso a quelle parole più le sento mie,non mi suonano nuove,credo di averle sentire dire e ripetere migliaia di volte. Scelgo il silenzio. Nel buio di quella notte,l’edificio con la vetrata di prima mi colpisce come se riflettesse i miei pensieri e di sponda fa uscire da me parole tanto insignificanti quanto giustamente logiche: “E’ lì che vado quando faccio reparto in ospedale”. I miei due accompagnatori si voltano solo per un attimo quasi svogliatamente come se un peso troppo oneroso gli impedisse una torsione migliore. Proseguiamo in avanti ed io,come se in quel posto potessi muovermi ad occhi chiusi indico di seguire un cartello. In quel momento un’ambulanza accende i suoi fari e mi fa sobbalzare per un attimo.

Il fotografo ci ringrazia e ci dice che non ruberà un minuto in più al nostro “prezioso tempo” assicurandoci che la seconda fotografia ci piacerà molto perché ben diversa da tutte le altre. Andrea è già sceso dall’altalena e si dirige verso la massa degli invitati. Mio cugino mi guarda con aria dubbiosa,forse poco convinto o interessato di quel che ha detto il fotografo. Sento il bisogno di rassicurarlo e gli pronuncio una frase che a lui suona strana: “Ha ragione,è proprio bella questa foto!”. “Ma se non l’hai nemmeno vista!” mi risponde altrettanto convinto. Resto distaccato da quelle parole,quasi come se avessi accuratamente evitato di ascoltarle e propongo a Cristian di scendere dallo scivolo. “Prima io” mi dice e si fionda giù a tutta velocità. Io,tendenzialmente meno atletico mi accomodo con calma e scendo giù lentamente sentendo il vento che mi scompiglia i capelli,seppur molto corti.

Un alito di vento mi accarezza i capelli. Pure io,forse per prolungare quella sensazione gradevole,ci passo una mano fino alla nuca compiacendomi della lunghezza ottenuta. Stiamo entrando in un piazzale,il tempo sta peggiorando e in lontananza si vedono lampi che squarciano il cielo. La donna che tendo ad identificare ormai con assoluta certezza in mia madre accelera il passo tenendosi chiusa la giacca. Con gesto quasi naturale la prendo sottobraccio mentre comincio a calarmi sempre meglio in questa realtà. Mi sembra che tutto assuma contorni nitidi a differenza di prima quando ero in un quadro dalle figure definite ma senza contorno. Credo di avere un proiettore dentro di me che sta mettendo a fuoco sempre meglio i dettagli. Dovrei essere felice di cominciare a sentirmi a mio agio,ma mentre conosco sempre più di quello che ho intorno,ho qualcosa che mi stringe il petto con inisistenza sempre maggiore e che non mi fa respirare. Mi accorgo di avere gli occhi un po’ bagnati. Entriamo in un strada che va allargandosi sempre più,ha colori che non mi piacciono perché virano sul verde e sul grigio,ma li sento come scontati,come logici,come inevitabili in quella situazione. Quasi fosse la chiave che apre l’ultima porta dei miei pensieri mi torna in mente una vecchia foto di quando ero piccolo. Chiudo gli occhi,la paura in me cresce,mi sento mancare,provo una sensazione di rifiuto nel volerla guardare ma capisco che devo assolutamente. Allora scavo un po’ nella mia mente per alleviare il dolore,ripercorro i ricordi e le esperienze che mi aspettavo di incontrare,mi sembra di essere cresciuto in poche ore e poi la trovo: è sgualcita,leggermente sciupata e piegata nel mezzo. Ritrae tre bambini, di cui due,bruni,sono vestiti in modo caratteristico con dei corpetti tipicamente degli anni Ottanta,mentre l’altro,biondo,sembra essere finito lì per caso. La foto è piegata nel mezzo,quasi copre la figura del bambino centrale che sembra sorpreso da quello al suo fianco che lo fissa intensamente. Il vento freddo cessa improvvisamente ma non mi dà benessere,anzi la sua calorosa calma mi terrorizza a tal punto da rendermi di ghiaccio, quasi pronto a ricevere uno dei colpi più tremendi della mia vita. Riapro gli occhi,ormai completamente coperti di lacrime e vedo una donna correre verso di noi talmente velocemente da sembrare immobile come una statua di sale: “E’ morto” ci dice.
Ciao Cristian.


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