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Pubblicata il: novembre 25, 2013 |
Da: Redazione
Categoria: Racconti inediti e/o celebri | Totali visite: 1790 | Valorazione
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Redazione
Sono Manuel figlio di Felice, contento di portar avanti il lavoro di mio padre.
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Rudyard Kipling
Bombay 30/12/1865 Londra 18/01/1936
IL SERPENTE DI MARE
E se dubitate del mio racconto
navigate sull'onda dei Mari del Sud;
andate dove il ramoso corallo è testimone
di lotte per vite innumerevoli,
dove, intorno alla barca abbandonata,
i molluschi color arcobaleno si gonfiano e fluttuano;
e saltando dove l'ulva indugia,
la stella marina agita tutte le sue punte,
dove, sotto le miriadi d'aculei,
II riccio scivola fra lo scoglio,
una meraviglia arancione oscuratamente s'indovina
Dall'oscurità dove le seppie riposano,
Adagiate sui fondali più cupi che nascondono
l'idrofile bianco e cieco e la sua sposa
che, sonnecchiando, fiutano le navi da tanto tempo perdute
calate dall'oscurità alle loro labbra.
In The Matter of One Compass
Chi asin nasce asin muore, e chi fu massone, massone resta, come chi fu giornalista una volta, sempre e in etemo giornalista rimarrà.
Eravamo in tre, tutti giornalisti, imbarcati come unici passeggeri su una "carretta" che andava dove gli armatori la spedivano. Aveva un tempo caricato minerale di ferro a Bilbao, era stata noleggiata dal govemo spagnolo per fare servizio a Manila e stava finendo i suoi giorni nel commercio indigeno di Città del Capo, con qualche viaggio occasionale nel Madagascar e perfino in Inghilterra.
Noi la trovammo caricata per Southampton e la prendemmo perché il prezzo del passaggio era molto conveniente. C'era Keller, d'un giornale americano, che tomava negli Stati Uniti reduce dalle esecuzioni di palazzo nel Madagascar; c'era un corpulento mezzo olandese, proprietario e direttore di un giomale dell'interno del paese vicino a Johannesburg, e c'ero io, che avevo solennemente rinunziato al giornalismo, facendo voti di dimenticare d'aver conosciuto la differenza che passava fra un articolo di spalla e un comunicato commerciale.
Ma, dieci minuti dopo che Keller mi aveva parlato, mentre il Rathmines lasciava Citta del Capo, avevo dimenticato l'indifferenza che volevo fingere e mi ero lanciato in un'accalorata discussione sull'immoralità di allungare i telegrammi oltre un certo limite fissato. Allora Zuyland uscì dalla sua cabina e fummo istantaneamente tutti a nostro agio perché, essendo uomini della stessa professione, non c'era bisogno di presentazioni. C'impadronimmo formalmente del vapore, spalancammo la porta del bagno passeggeri - sulle linee di Manila i gran signori non si lavano -gettammo fuori le bucce d'arancio e le cicche di sigaro che erano in fondo al bagno, pagammo un lascar perché ci facesse la barba durante il viaggio, e quindi ci chiedemmo i nomi l'un l'altro.
Tre uomini qualsiasi avrebbero litigato per la noia prima di arrivare a Southampton. Noi, in virtù della nostra professione, eravamo fuori del normale. Una larga percentuale delle storielle che circolano per il mondo, le trentanove che non si possono raccontare alle signore e l'unica che lo si può, sono proprietà comune derivata da una fonte comune. Ce le snocciolammo tutte, per questione di forma, con tutte le specifiche varianti locali che sono sorprendenti.
Poi vennero fuori, negli intervalli delle accanite partite a carte, storie più personali d'avventure e di cose viste e sofferte: ondate di panico fra gente bianca, quando il cieco terrore corre da uomo a uomo sul Ponte di Brooklyn e la gente si schiaccia a vicenda e a morte senza sapere il perché; incendi, e facce che aprono e chiudono orribilmente le loro bocche alle finestre dalle intelaiature fiammeggianti; naufragi fra gelo e neve, riferiti dall'equipaggio mezzo assiderato del rimorchiatore di salvataggio rivestito di nevischio; lunghe cavalcate dietro a ladri di diamanti; scaramucce sul veldt e nei consigli municipali con i Boeri; indiscrezioni sulla pigra e ingarbugliata politica di Città del Capo e la mulerule nel Transvaal; aneddoti di gioco, di cavalli e di donne, a decine e a centinaia, tanto che il Secondo di bordo, che ne aveva viste più di noi tre messi insieme, ma al quale mancavano le parole per rivestire i suoi racconti, se ne stava a bocca aperta fino all'alba. Quando i racconti erano esauriti, tornavamo alle carte, finché una mano giocata in modo strano o una osservazione occasionale spingeva l'uno o l'altro a dire: "Questo mi ricorda un uomo che...", oppure "Un caso che...", e giù gli aneddoti riprendevano mentre il Rathmines scalciava aprendosi la rotta verso nord attraverso il mare caldo.
Nella mattinata, seguita ad una notte particolarmente afosa, noi tre ce ne stavamo seduti immediatamente davanti alla tuga, dove un vecchio nostromo svedese che chiamavamo Frithiof il danese era al timone, fingendo di non riuscire ad ascoltare i nostri racconti. Una volta o due Frithiof aveva girato la ruota curiosamente e Keller aveva alzato il capo dalla poltrona a sdraio per chiedere: "Che c'è mai? Non vi riesce tenerla?".
"Nell'acqua si sente qualcosa che non riesco a capire", disse Frithiof. "Mi pare di correre giù per un pendio o qualcosa di simile. Si govema male, stamattina."
Nessuno sembra conoscere le leggi che regolano il polso del mare. Talvolta anche un uomo di terraferma sente che l'oceano è inclinato a un'estremità, e che la nave si apre la via sopra un invisibile declivio; e talvolta, quando né tutto il vapore né il vento favorevole giustificano la lunghezza del cammino fatto in una giornata, il Capitano dice che la nave è inclinata e in discesa; ma, come avvengono questi alti e bassi, non è ancora stato autorevolmente stabilito.
"No, è un mare che viene al filo", disse Frithiof, "e con questo mare la nave non governa bene."
II mare era liscio come olio, eccetto l'onda lunga e regolare. Mentre stavo guardando sopra la murata per vedere da quale parte ci venisse di poppa, il sole s'alzò in un cielo del tutto sgombro e colpì l'acqua con i suoi raggi così bruscamente che il mare parve risonare come un gong brunito. La scia dell'elica e la sottile striscia bianca tracciata dalla sagola del solcometro, pendente dalla poppa, erano i soli segnali sull'acqua che l'occhio poteva discernere. Keller si alzò rivoltandosi dalla poltrona e andò a staccarsi un ananas fra quelli che erano appesi a maturare sotto la tenda a poppavia. "Frithiof, il solcometro è stanco di nuotare, e sta tomandosene a casa", disse con voce strascicante.
"Che cosa?", chiese Frithiof, e la sua voce fece un salto di parecchie ottave.
"Torna a casa", ripete Keller appoggiato sulla poppa. Gli corsi al fianco, e vidi la sagola del solcometro, che fino ad allora era stata tesa sopra la ringhiera di poppa, mollarsi in bando, aggrupparsi e spuntare fuori dal giardinetto. Frithiof chiamo il ponte dal tubo e il ponte rispose: "Sì, nove nodi". Allora Frithiof parlò di nuovo e gli fu risposto: "Che volete dal Capitano?", e Frithiof mugghiò: "Chiamatelo in coperta".
Dopo di che Zuyland, Keller e io stesso, fummo presi alquanto dall'eccitazione di Frithiof, perché a bordo ogni emozione è facilmente propagabile. II Capitano venne fuori correndo dalla sua cabina, parlò con Frithiof, guardò la sagola del solcometro, saltò sul ponte di comando e in un minuto sentimmo che il vapore virava come Frithiof voleva.
"Torniamo a Città del Capo?", chiese Keller.
Frithiof non rispose e continuò a far girare la ruota. Poi ci fece cenno di dargli una mano e tutt'e tre ci mettemmo a far forza perché la ruota girasse e il Rathmines rispondesse al timone, e ci trovammo a guardare il bianco della nostra scia con ancora il mare calmo come olio tagliato dalla nostra prua, sebbene non andassimo che a mezza forza.
II Capitano tese il braccio dal ponte e gridò. Un minuto dopo avrei dato chissa che cosa per aver urlato anch'io, perche una metà del mare sembrava esser salita sull'altra metà e arrivava nella forma d'una montagna. Non aveva né cresta, né pettine, né riccio, non era che acqua nera con piccole onde nere che si inseguivano l'un l'altra intorno ai fianchi.
La vidi scorrere oltre e sopra il livello delle lamiere di prua del Rathmines prima che il piroscafo riuscisse a sollevare lo scafo, e conclusi che questo doveva essere l'ultimo dei miei viaggi sulla terra. Poi ci alzammo sempre più di continuo, finché sentii Keller, che mi diceva all'orecchio: "Le viscere dell'abisso, Gran Dio!" e il Rathmines rimase in equilibrio, con l'elica che vorticava e tambureggiava sul pendio d'una depressione che si allungava all'ingiù per un buon mezzo miglio.Discendemmo in quel vuoto, con la prua sotto per la maggior parte e con l'aria che odorava di umido e di fango, come quella di un acquario vuotato. C'era una seconda montagna da risalire, questo lo vidi bene, ma l'acqua crollo a bordo e mi trascinò a poppavia finché mi schiacciò contro la porta della tuga e, prima che potessi prender fiato e aprir gli occhi di nuovo, rollavamo avanti e indietro in mezzo ad acque scatenate, con gli ombrinali che grondavano come tegole durante un temporale.
"Sono state tre ondate", disse Keller, "e il locale delle caldaie è allagato."
I fuochisti erano saliti sul ponte, forse credendo di annegare. Accorse il Direttore di Macchina e li trascinò dabbasso, e l'equipaggio, ansante, cominciò a faticare alla goffa pompa del Ministero del Commercio. Questo non si dimostrava nulla di serio e quando capii che il Rathmines era realmente sopra l'acqua e non sotto, chiesi che cosa fosse avvenuto.
"II Capitano dice che sia stata un'esplosione sottomarina... un vulcano", rispose Keller.
"Non ci ha scaldati di certo", dissi. Io mi sentivo gelare, e il freddo era quasi sconosciuto in quelle acque. Scesi dabbasso a cambiarmi e, quando tomai in coperta, tutto era avvolto da una fittissima nebbia bianca.
"Ci saranno altre sorprese?", domandò Keller al Capitano.
"Non so. Contentatevi di essere ancora vivi, signori. Questo è un maroso straordinario scagliato in aria da un vulcano. Probabilmente il fondo del mare si e alzato un poco o è avvenuto qualcosa di simile. Quel che non riesco a capire è il freddo. II nostro termometro di marina segna che l'acqua in superficie è 44 gradi, mentre dovrebbe essere almeno 68 gradi."
"Che roba!", disse Keller, rabbrividendo. "Ma non sarebbe meglio badare alla sirena? Mi è parso di sentire qualcosa."
"Sentite! Santo Cielo!", disse il Capitano dal ponte. "Credevo che ci avreste pensato." E tirò la corda della sirena che del resto era piuttosto debole. II fischio spruzzo e fu strozzato, perché il locale delle caldaie era pieno d'acqua e i fuochi erano mezzo spenti, e infine lanciò fuori un lamento. Dalla nebbia gli fu risposto da una delle piu spaventose sirene a vapore che avessi mai sentito. Keller diventò bianco come lo divenni anch'io, poichè la nebbia, la fredda nebbia, era su di noi, e ogni uomo può esser perdonato per aver paura della morte che non vede.
"Date vapore!", disse il Capitano alla sala macchine. "Vapore per il fischio, anche se ci dovessimo fermare."
Fischiammo di nuovo e l'umidità gocciolò dalle tende sulla coperta mentre aspettavamo la risposta. Questa volta ci parve che venisse da poppavia, ma molto più vicina di prima.
"II Pembroke Castle ci viene addosso!", disse Keller, e poi aggiunse malignamente: "Be', grazie a Dio, lo porteremo a fondo con noi".
"E' un vapore a ruote", mormorai. "Non sentite le pale?"
Questa volta fischiammo e ruggimmo finchè ci manco il vapore, e la risposta quasi ci assordò. Ci fu un rumore di acqua pazzamente sferzata a forse una cinquantina di metri da noi, e qualcosa passò fulminea nella bianchezza, qualcosa che ci parve grigia e rossa.
"II Pembroke Castle con la chiglia all'aria", disse Keller che, essendo giornalista, cercava sempre di spiegar tutto. "Quelli sono i colori della Castle Line. Sta accadendo qualcosa di grosso."
"II mare è stregato", disse Frithiof dalla tuga. "Ci sono due vapori."
Un'altra sirena risono alla nostra prua e il nostro vaporetto rollò nello sciacquio di qualcosa che era passata non vista.
"Evidentemente siamo in mezzo a una flotta", disse Keller tranquillamente. "Se non ci sperona l'uno, lo fara l'altro. Ah! Che diavolo è questo?"
Fiutai, perché nell'aria fredda c'era un puzzo tremendo di rancido... un puzzo che avevo sentito prima.
"Se fossi a terra avrei detto che è un alligatore. Sa di muschio", dissi.
"Non basterebbero a produrlo diecimila alligatori", disse Zuyland. "Li ho gia sentiti."
"Stregato! Stregato!", disse Frithiof. "II mare si è rovesciato di sotto in su e noi camminiamo sul fondo."
Di nuovo il Rathmines rollò nello sciacquio di qualche nave invisibile, e un'onda grigio argento s'infranse a prua, lasciando in coperta uno strato di sedimento, quel sedimento grigio che si trova nelle insondabili profondita del mare. Uno spruzzo dell'ondata mi colpì in viso ed era talmente freddo che mi morse come fosse stato d'acqua bollente. L'acqua più morta e intatta del fondale era stata sollevata, spinta alla superficie dal vulcano sottomarino: quell'acqua gelida e immobile che uccide ogni vita e sa di desolazione e di vuoto. Non ci occorreva la nebbia accecante nè quell'indescrivibile puzzo di muschio ad atterrirci: tremavamo tutti di freddo e di paura dov'eravamo.
"E' l'aria calda sull'acqua fredda che produce la nebbia", disse il Capitano. "Si dovrebbe dissipare in poco tempo."
"Fischiate, oh, fischiate, e leviamoci di qui", disse Keller.
II Capitano fischiò di nuovo e lontano, molto lontano a poppavia, le invisibili sirene gemelle ci risposero. II loro urlo bruciante si fece più alto, finchè sembrò lacerare la nebbia proprio sopra il nostro quadrato, e io mi rannicchiai mentre il Rathmines si tuffava sotto una duplice ondata.
"Basta!", disse Frithiof. "Qui si sta male davvero. Andiamocene, in nome di Dio."
"Ora se una torpediniera con una sirena da City of Paris impazzisse e spezzasse gli ormeggi, e chiamasse una compagna in aiuto, sarebbe comprensibile che noi andassimo come andiamo ora. Altrimenti questa cosa..."
Le ultime parole si spensero sulle labbra di Keller, e gli occhi gli uscirono dall'orbita, mentre rimaneva a bocca aperta. Da un metro e ottanta a due metri e dieci sopra il portello delle murate, incomiciato dalla nebbia, e sospeso in aria come la luna piena, pendeva una specie di viso che non era umano, e di certo non era d'animale perché non poteva essere mai appartenuto a questa terra e noto all'uomo. La sua bocca era aperta, e rivelava una lingua assurdamente piccola, grottesca come quella di un elefante; aveva fitte rughe di pelle bianca agli angoli delle labbra aperte, i tentacoli bianchi d'un barbio pendevano dalla guancia inferiore, e nella bocca non c'era segno di denti. Ma l'orrore di quel muso stava negli occhi, bianchi nelle cavità come ossa raschiate, e ciechi. Eppure questo muso, rugoso come certe maschere di leoni nella scultura assira, era vivo di rabbia e di terrore.
Un lungo tentacolo bianco toccò le nostre murate, poi il muso scomparve con la rapidita d'una cecilia che rientra nel buco, e la prima cosa che ricordo è la mia voce nei miei orecchi, che diceva gravemente all'albero maestro: "Ma la vescica natatoria gli doveva esser stata tirata fuori della bocca, sapete".
Keller si chinò su di me con una faccia cenerina. Si mise la mano in tasca, prese un sigaro, gli staccò la punta coi denti, poi lo buttò via e si ficcò in bocca il pollice tremante, borbottando:
"L'uva spina gigante e le rane piovane! Dammi un fiammifero... dammi un fiammifero! Ti dico, dammi un fiammifero!". Una piccola peria di sangue gli cadde dalla giuntura del pollice. Rispettai il motivo, sebbene la manifestazione fosse assurda. "Fermo, non staccatevi il dito a morsi", dissi, e Keller si mise a ridere nervosamente mentre raccoglieva il sigaro. Soltanto Zuyland, appoggiato al portello delle murate, sembrava padrone di sè. Dichiarò piu tardi che era stato molto male. "L'abbiamo visto", disse, volgendosi intomo. "Ecco cos'è." "Che cosa?", chiese Keller, masticando il sigaro spento. Mentre parlava, la nebbia si squarcio, e vedemmo il mare, grigio di fango, che scorreva al nostro fianco e senza segno di vita. Poi in un punto gorgogliò e divenne come il vaso di unguento di cui parla la Bibbia.
Da quello scompiglio che s'allargava ad anello sorse una cosa - una cosa grigia e rossa con un collo - una cosa che urlava e si contorceva dal dolore. Frithiof tirò indietro il fiato e lo trattenne tanto che le lettere rosse che componevano il nome della nave, intrecciato attraverso la sua maglia, parvero staccarsi e cadere come se fossero caratteri malmessi. Poi disse, con un leggero chioccìo nella gola: "Ahimè! E' cieco. Hur illa! Quella cosa è cieca", e un mormorio di compassione corse fra noi tutti, perché vedevamo sull'acqua quella cosa cieca e sofferente.
Chissà chi le aveva squarciato e tagliato crudelmente i grandi fianchi, dai quali sgorgava il sangue. La grigia melma del fondale marino le si era posata sulle mostruose grinze del dorso e ne ricadeva a cateratte. La bianca testa cieca era gettata all'indietro e sbatteva sulle ferite, e il corpo, nel suo tormento, s'alzò netto sulle onde rosse e grige finchè ci rivelò un paio di spalle frementi rigate di alghe e rese ruvide dalle conchiglie, ma bianche come negli spazi liberi la testa pelata, senza crini, cieca e sdentata. Dopo, comparve un punto all'orizzonte, e si sentì il rumore di uno strido acuto, e fu come se in un attimo una spoletta attraversasse il mare e una seconda testa e un collo apparvero fra i traguardi spingendo un muro di acque mormoranti a dritta e a sinistra.
Le due cose s'incontrarono - intatta l'una e l'altra in un sussulto mortale - maschio o femmina, dicemmo; la femmina andava verso il maschio. Gli girò intorno mugghiando e gli posò il collo sulla curva del suo grande dorso di tartaruga, e lui scomparve per un attimo sott'acqua, ma poi riapparve, grugnendo dal dolore mentre il sangue sgorgava. Una volta tutta la testa e il collo balzarono fuori dall'acqua e s'irrigidirono, e io sentii Keller dire, come se stesse osservando un incidente sulla strada: "Dategli aria. Per amor di Dio, dategli aria!". Poi la lotta con la morte comincio con crampi, contorcimenti, e sbalzi della massa bianca qua e là, finchè il nostro vaporetto rollò di nuovo mentre ogni grigia ondata ricopriva le sue lamiere di quella melma.
II sole era terso, non c'era vento, e noi tutti osservavamo: l'intero equipaggio, i fuochisti e gli altri, invasi dallo stupore e dalla pietà, soprattutto dalla pietà. Quell'essere era assolutamente privo di difesa e, se si eccettua il suo compagno, estremamente solo. Nessun occhio umano avrebbe dovuto vederlo: era mostruoso e indecente esporlo così in acque tanto frequentate. Era stato vomitato alla superficie, squarciato e morente, dal suo riposo sul fondale marino, dove avrebbe potuto vivere fino al Giorno del Giudizio, e noi vedevamo le sue forze vitali scaturire come una marea furiosa spinta attraverso gli scogli da una tempesta scatenata verso terra. La sua compagna si dondolava sull'acqua a poca distanza, mugghiando continuamente, e il puzzo di muschio si abbassò sulla nave e ci fece tossire.
Infine la battaglia per la vita cessò in uno sbattere di onde colorate. Vedemmo il collo che si contorceva ricadere come un flagello, e la carcassa rivoltarsi di sghembo, mostrando lo scintillare di un ventre bianco e l'aggiunta di una gigantesca zampa posteriore o natatoria. Poi tutto affondò e il mare ribollì su tutto, mentre la compagna nuotava tutt'intorno, lanciando la testa in tutte le direzioni.
Sebbene nutrissimo il timore che essa avebbe potuto attaccare il vapore, nessuna forza sulla terra avrebbe potuto togliere uno di noi dal posto che occupava in quel momento. Tutti osservavamo trattenendo il fiato. La compagna s'interruppe nella sua ricerca, e sentivamo le acque batterle lungo i fianchi; poi alzò il collo in tutta la sua lunghezza, cieca e sola nell'immensa solitudine del mare, e lanciò sulle onde un urlo lacerante come si lancia una conchiglia vuota attraverso uno stagno. Quindi si diresse rapidamente verso ponente, con il sole che le splendeva sulla testa bianca e sulla scia che si lasciava dietro, finchè non fu che un punto argenteo sull'orizzonte. Eravamo di nuovo sulla nostra rotta e il Rathmines, coperto da prua a poppa di sedimenti marini, sembrava una nave incanutita dal terrore.
"Dobbiamo mettere insieme i nostri appunti", fu la prima osservazione coerente di Keller. "Siamo tre abili giornalisti... e abbiamo il fatto più straordinario che si sia mai dato di vedere. A ciascuno il suo."
Mi opposi. Non si guadagna nulla dalla collaborazione giornalistica quando bisogna servirsi degli stessi fatti; così ognuno si mise al lavoro per conto proprio. Keller impostò il suo articolo su tre titoli, parlò del nostro "bravo Capitano" e concluse con un'allusione all'audacia americana, dato sì che un cittadino di Dayton, Ohio, aveva visto il serpente di mare. Una cosa del genere avrebbe screditato la Creazione molto più d'un semplice racconto di mare ma, come campione dello scrivere per geroglifici d'un popolo civile soltanto a metà, era molto interessante.
Zuyland ne tirò fuori una poderosa colonna e mezza, dando lunghezza e giustezza approssimativa e l'elenco completo dell'equipaggio dal quale aveva raccolto una testimonianza giurata sui fatti. Non c'era nulla di fantastico e di folgorante in Zuyland. Io scrissi all'incirca i tre quarti di una colonna borghese interlineata, astenendomi da qualunque trucco giornalistico per motivi che cominciavano ad apparirmi fin troppo chiari.
La gioia aveva reso insolente Keller. Egli aveva intenzione di telegrafare da Southampton al World di New York, spedire l'articolo in America lo stesso giorno, sbalordire Londra con la sua intestazione su tre colonne, e sgomentare la terra in genere.
"Vi farò vedere come so far funzionare una notizia sensazionale quando vi ho messo le mani sopra", disse.
"E' la prima volta che venite in Inghilterra?", chiesi.
"Sì", rispose. "Mi sembra che non apprezziate molto la bellezza della nostra strabiliante notizia. E' enorme... la morte del serpente di mare! Santo Cielo, giovanotto, e il più gran successo consentito a un giornale!"
"E non è curioso pensare che non comparira mai su un giornale?", chiesi. Zuyland, che era vicino a me, fece un rapido cenno d'assenso con il capo.
"Che volete dire?", chiese Keller. "Se siete abbastanza inglese da buttar via questa fortuna, io non lo sono. Credevo che foste un giomalista."
"Lo sono. Ed è per questo che lo so. Non fate lo scemo, Keller! Ricordate che ho settecento anni piu di voi e che quello che potranno imparare i vostri nipoti io l'ho imparato cinquecento anni fa dai miei antenati. Non lo farete, perché non lo potete fare."
Questa conversazione si svolgeva in alto mare, dove tutto sembra possibile, a qualche centinaio di miglia da Southampton.
Doppiammo Needles Light all'alba, e il giorno nascente ci rivelò le ville fatte a stucco sul verde e la terribile simmetria dell'Inghilterra, linea su linea, muro su muro, solidi dock di pietra e moli monolitici. Aspettammo un'ora sotto la tettoia della dogana e ci fu tutto il tempo perché l'effetto trasparisse.
"Ora, Keller, attaccate la vostra solfa. UHavel parte oggi. Impostate", gli dissi, "impostate, e poi vi condurrò all'ufficio del telegrafo."
Sentii Keller respirare affannosamente come se fosse preso dall'influenza della terra, che lo intimoriva, così come dicono che la landa di Newmarket impaurisca un puledro nuovo alle corse all'aperto.
"Vorrei ritoccare un po' l'articolo. Se aspettassimo fino a Londra?", disse. A proposito, Zuyland aveva fatto a pezzi e gettato fuori bordo il suo scritto quella mattina presto. Le sue ragioni erano le mie.
In treno Keller cominciò a rivedere la sua copia e, ogni volta che guardava i piccoli campi pettinati, i villini rossi, la banchina lungo il Tamigi, il suo lapis turchino faceva dei segni sulle cartelle. Sembrava che avesse dragato il vocabolario per gli aggettivi. Non riuscivo a ricordarmene uno che non avesse usato. Eppure era un ottimo giocatore di poker che non mostrava mai una carta in più di quelle che erano sufficienti a formare la combinazione.
"Non gli lascerete nemmeno un urlo?", chiesi in tono di compatimento. "Lo sapete che in America ogni cosa va, da un bottone dei calzoni a un'aquila bicipite."
"E' questo è il guaio", disse Keller a bassa voce. "Le sballiamo sempre tanto grosse che, quando per una volta avviene che si dica l'aurea verità... mi piacerebbe provare con un giornale di Londra. Ma in questo caso avete il diritto di precedenza."
"No, davvero. Non parlerò affatto della cosa sui nostri giornali. Sarò molto felice di lasciarveli; ma di certo telegraferete in patria?"
"No, se posso sfruttare qui questa notizia straordinaria e vedere i Britanni balzare in piedi."
"Non ci riuscirete, datemi retta, con tre colonne a quella maniera. Non saltano su tanto facilmente come tanta altra gente."
"Comincio a crederlo anch'io. Non c'è nulla che possa sbalordire questo paese?", chiese, guardando fuori dal finestrino. "Quanto avrà quella fattoria?"
"E' nuova. Non può avere che duecento anni, al massimo."
"Uhm! E i campi pure?"
"Quella siepe deve esser stata tosata a quel modo per circa ottant'anni."
"E la mano d'opera è a buon mercato, eh?"
"Piuttosto. Be', immagino che vorrete tentare al Times, no?"
"No", disse Keller, guardando la Cattedrale di Winchester. "Tanto varrebbe cercar di elettrizzare un pagliaio. E, pensando che il World avrebbe fatto tre colonne, e ne avrebbe chieste delle altre... e con illustrazioni! E' disgustoso!"
"II Times forse le potrebbe accettare...", dissi.
Keller gettò il giornale dall'altra parte del vagone ed esso si aprì in tutta l'austera maestà dei suoi caratteri compatti... s'aprì con lo scricchiolio di un'enciclopedia.
"Forse! Con i vostri "forse" perforereste le corazze d'un incrociatore. Guardate la prima pagina!"
"E così che l'intendete?", dissi. "Allora vi raccomando di cercare un giornaletto frivolo."
"Con una storia come la mia... la nostra? E' storia sacra!"
Gli mostrai un giornale che pensavo gli sarebbe dovuto piacere, perché era fatto all'americana.
"Questo pare roba nostra", disse Keller, "ma non è quello che ci vuole. Preferisco una di queste massicce e antiche colonne del Times. Forse ci dev'essere un Vescovo in redazione."
Quando arrivammo a Londra, Keller scomparve in direzione dello Strand. Che cosa gli sia capitato non lo so, ma sembra che invadesse la redazione d'un giomale della sera alle 11,45 (gli avevo detto che a quell'ora i direttori inglesi hanno poco o nulla da fare), e facesse il mio nome come testimone della verità del suo racconto.
"Per poco non mi hanno scaraventato dalle scale", disse Keller furibondo a colazione. "Appena feci il vostro nome, il "vecchio" mi disse che dei vostri scherzi ne avevano abbastanza e che sapevate bene le ore in cui si riceve, se avevate qualcosa da offrire, e che volevano vedervi sulla forca prima di aiutarvi a gonfiare una delle vostre maledette balle. A ogni modo, dite un po': che registro tenete per la verità, in questo paese?"
"Una bellezza. Siete voi che gli correvate incontro e non l'avete capito. Be', lasciate in pace i giornali inglesi
e telegrafate a New York. Lì funziona tutto."
"Ma non vi rendete conto che è appunto per questo?", ripete Keller.
"Me ne sono accorto da un bel po'. Allora, non volete telegrafare?"
"Sì, telegraferò", rispose con l'eccessiva enfasi di chi non sa bene che cosa vuol fare.
Quel pomeriggio lo condussi in giro un po' dappertutto, per le strade che corrono fra i marciapiedi come canali di lava in movimento, su ponti che son fatti di pietre durevoli, attraverso sottopassaggi pavimentati e fiancheggiati da grossi massi di cemento, fra case che non sono mai restaurate, e per gradinate che scendevano al fiume e che, all'occhio, parevano scavate nella viva roccia. Una nebbia nera ci cacciò dentro l'Abbazia di Westmioster e, stando lì al buio, sentivamo le ali dei secoli morti roteare intomo alla testa di Litchfield A. Keller, giornalista di Dayton, Ohio, usa, la cui missione era quella di far sbalordire i Britanni.
Keller incespicava e respirava affannosamente nelle fitte tenebre, mentre agli orecchi confusi gli giungeva il frastuono del traffico.
"Andiamo all'ufficio postale a telegrafare", gli dissi. "Non sentite il World di New York richiedere a gran voce le notizie dell'enorme serpente di mare, cieco, bianco, che puzzava di muschio, colpito a morte da un vulcano sottomarino, e assistito dall'amorosa consorte nella sua morte in pieno oceano, come fu visto da un cittadino americano, un allegro, immaginoso e geniale giornalista di Dayton, Ohio? Via per l'Ohio! Andiamo, svelti! Spalancate le porte! Szz! Bum! Aah!"
Keller aveva studiato a Princeton e sembrava che avesse bisogno d'incoraggiamento.
"Mi avete portato sul vostro terreno", disse, frugando nella tasca del soprabito. Ne trasse il suo articolo, con i moduli telegrafici - perché aveva già scritto il telegramma - e mi pose il tutto in mano brontolando: "Passo. Se non fossi venuto in questo maledetto paese... Se avessi spedito il tutto da Southampton... Se mai vi cogliessi a ponente degli Alleghani, se...".
"Non ve la pigliate, Keller. Non è colpa vostra. È colpa del vostro paese. Se aveste avuto settecent'anni di più, avreste fatto quel che sto per fare io."
"Cosa state per fare?"
"Narrerò la cosa come se fosse una bugia."
"Ne farete un racconto?" Disse questo con il disprezzo d'un giornalista purosangue per quel ramo illegittimo della professione.
"Chiamatelo come vi fa piacere. Io lo chiamo una menzogna."
Ed una menzogna è diventata; perché la Verità è una donna nuda e, se per caso è tratta dal fondo del mare, spetta ad ogni gentiluomo di darle una sottana o di voltarsi verso il muro giurando di non aver visto nulla. |
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Ricordo della propria madre morta. |
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