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Pubblicata il: luglio 16, 2013 |
Da: Redazione
Categoria: Poesie latine | Totali visite: 1929 | Valorazione
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Redazione
Sono Manuel figlio di Felice, contento di portar avanti il lavoro di mio padre.
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Decimo Gaio Giovenale
Libro Quarto - XII
(per il ritorno di un amico)
Giorno più dolce del mio compleanno
questo è per me, Corvino,
in cui un verde altare attende in festa
le vittime promesse ai numi.
A Giunone regina porto una candida agnella
e un'altra di vello uguale alla dea
che combatte con la Gòrgone maura.
Ma non lontano la vittima destinata
a Giove Tarpeo irrequieta scuote
la fune quant'è lunga e agita le corna:
è un vitello impetuoso,
maturo ormai, tutto asperso di vino,
per l'altare del tempio,
un vitello che si vergogna
di succhiare le poppe della madre
e già tormenta i tronchi col turgore delle corna.
Se avessi un patrimonio ingente
da compensare il mio affetto,
immolerei un toro più grasso di Ispulla,
attardato dalla sua stessa mole,
e non nutrito nei prati qui intorno,
ma d'una razza che riveli
i pascoli fiorenti del Clitumno,
e con un collo
che solo un sacerdote altissimo
fosse in grado di colpire, perché
qui festeggio il ritorno di un amico
tuttora sgomento per gli orrori subiti
e incredulo d'essere ancora vivo.
Oltre ai rischi del mare
è scampato ai colpi del fulmine.
Come una sola nube
tenebre dense nascosero il cielo
e una vampa improvvisa s'abbatté sugli alberi:
tutti se ne credettero colpiti,
pensando sbigottiti che non c'è naufragio
paragonabile all'incendio delle vele.
Lo stesso spaventoso orrore
d'una tempesta scatenata nei poemi.
Ma ascolta il periglio che ne seguì
e abbine più pietà;
anche se traversie del genere,
per quanto atroci, sian ben note a tutti,
come dimostrano nei templi
gli innumerevoli ex voto:
chi non sa che Iside è la manna dei pittori?
Un accidente simile
è capitato appunto al mio Catullo.
Quando ormai l'acqua aveva invaso
quasi tutto lo scafo
e i flutti, battendo di volta in volta
sull'uno o l'altro fianco della nave,
facevano ondeggiare l'albero,
senza che potesse porvi rimedio
l'esperienza del vecchio timoniere,
Catullo, cercando un compromesso coi venti,
cominciò a disfarsi del carico,
come fa il castoro che da solo si castra
per potersi salvare a spese dei testicoli,
di cui benissimo conosce
le virtù mediche.
'Gettate a mare tutto il mio bagaglio, tutto',
gridava, deciso a privarsi
anche delle cose più belle,
una veste di porpora
degna di un raffinato Mecenate,
e altre del colore che la natura
diede al gregge con erbe prodigiose,
con le virtù segrete di mirabili sorgenti
e del clima di Andalusia.
E non esita a gettare gli argenti,
i piatti cesellati da Partenio,
un cratere della capacità di un'urna,
in grado di saziar la sete a Folo
o alla moglie di Fusco; e ancora
catini, vasellame a mucchi
e coppe cesellate,
nelle quali aveva bevuto
quello scaltro compratore di Olinto.
Ma oggi chi altri e in quale parte del mondo
avrebbe l'animo di preferire
la vita all'argento, la salvezza agli averi?
[Non è per vivere che certa gente
ammassa patrimoni,
ma, accecata dall'avarizia,
solo per questi vive.]
Senza risparmio si gettano in mare
anche gli oggetti d'uso,
ma il pericolo non s'attenua.
Nell'incalzare della furia avversa
si decide allora di abbattere
con l'ascia l'albero maestro,
togliendosi così dalle difficoltà:
quando null'altro resta
per salvare la nave,
espediente estremo non v'è che mutilarla.
Vai, dunque, e affida ai venti la tua vita
alla mercé d'un legno monco:
dalla morte ti separano quattro
o sette dita, se più larga è la fiancata;
ma con le reti, il pane e l'otre pieno
non dimenticare di prendere la scure
in caso di tempesta.
Ma poi, quando placato il mare si distese
e un tempo più propizio
per la sorte dei naviganti
ebbe il sopravvento su venti e flutti,
e rasserenate le Parche
stami più favorevoli
filarono di lana bianca,
ecco che non più forte d'una brezza
si alza un vento leggero
e la nave malconcia
coi suoi poveri mezzi,
pochi panni distesi
e la sola vela di prora,
ritorna a navigare.
Così al calare delle stelle
col sole si riaffaccia la speranza.
Alta nel cielo allora appare
la vetta cara a Iulo
e preferita a Lavinio, città della matrigna;
vetta a cui diede il nome la candida scrofa,
che con la sua mirabile fertilità,
trenta poppe, incredibile prodigio,
riempì di gioia i frigi.
E finalmente la nave entra in porto
tra i due moli, il faro Tirreno
e gli argini che si protendono sul mare aperto,
lasciando alle spalle l'Italia:
non esiste in natura porto
che meriti altrettanta ammirazione.
Ma per la sua nave così smembrata
il pilota cerca il bacino più interno,
un'insenatura tanto tranquilla,
che potrebbe navigarla persino
un canotto di Baia,
dove i marinai col capo rasato,
finalmente al sicuro,
si divertono a narrare infiorandole
le peripezie loro.
Ragazzi, avanti, all'opera,
in silenzio e con animo propizio;
appendete corone al tempio
e infarinate di farro i coltelli,
ornate i teneri altari di verdi zolle.
Vi seguirò e compiuto, come è giusto,
il rito sacro, a casa tornerò,
dove piccole statuette,
illuminate da tremuli ceri,
riceveranno coroncine.
Là placherò il Giove di casa mia,
offrirò incenso ai miei Lari paterni
e intorno spargerò viole d'ogni colore.
Tutto è illuminato, di lunghi rami
si rianima la porta
e in segno di festa sin dal mattino
risplendono lucerne.
Non sospettare malizie, Corvino:
Catullo, per il cui ritorno
innalzo tanti altari,
ha tre piccoli eredi.
Vorrei vedere chi per un amico,
così poco proficuo, immolerebbe
anche solo una gallina ammalata
sul punto di chiudere gli occhi;
ma questa è ancora una spesa eccessiva:
per il proprio padre non si sacrifica
oggi neanche una quaglia.
Se invece avvertono il calore della febbre
Gallitta e Pacio, ricchi e senza figli,
tutto il portico si riveste
di tavolette votive conformi ai riti,
non manca chi promette d'immolare cento buoi,
solo perché da noi
non ci sono elefanti in vendita
e questo animale nel Lazio
e sotto il nostro cielo
proprio non nasce;
importato dal paese dei mori,
se pascola tra gli alberi dei Rùtuli
o nelle campagne di Turno,
come parte degli armenti di Cesare,
non può servire per usi privati;
anche se i suoi antenati ubbidivano
al punico Annibale, ai nostri duci
e al re dei Molossi, portando,
elemento decisivo in battaglia,
interi reparti sul loro dorso
e torri mobili d'assalto.
Certo, gente come Novio o Pacuvio Istro
non esiterebbe un istante
a trascinare all'ara tutto quell'avorio
per immolarlo ai Lari di Gallitta,
unica vittima degna di così grandi numi
e di chi insegue i loro testamenti.
Il secondo, poi, se potesse,
voterebbe al sacrificio tra i servi suoi
i più robusti e i più belli d'aspetto,
circonderebbe di bende la fronte
di schiavi e ancelle, e se in famiglia avesse
una vergine Ifigenia,
la destinerebbe agli altari,
anche senza speranza
che furtiva, come nella tragedia,
una cerva prendesse il posto suo.
E bravo il mio concittadino:
mille navi non valgono
un testamento come quello.
Se il malato scamperà a Libitina,
dopo un omaggio così sorprendente,
preso nella rete, distruggerà
il vecchio testamento e in breve
forse lascerà tutto quanto
a Pacuvio, a lui solo,
che se ne andrà superbo tra i rivali vinti.
Vedi dunque che val pure la pena
di sgozzare la fanciulla di Micene.
L'augurio mio: lunga vita a Pacuvio,
tanta quanta ne visse Nestore,
possieda quanto ha rubato Nerone,
raggiunga col suo oro le montagne;
ma non ami nessuno
e da nessuno sia amato mai. |
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