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Pubblicata il: luglio 16, 2013 |
Da: Redazione
Categoria: Poesie latine | Totali visite: 1824 | Valorazione
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Redazione
Sono Manuel figlio di Felice, contento di portar avanti il lavoro di mio padre.
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Decimo Giunio Giovenale
LIBRO QUINTO - XIII
(il rimorso come punizione)
Ogni azione rivolta al male
disgusta anche chi la commette.
Questa è la prima punizione:
nessun colpevole è assolto
dalla propria coscienza,
neppure se per scellerato broglio
una sentenza iniqua del pretore
gli abbia dato ragione.
Ma cosa credi che pensi la gente,
Calvino mio, della scelleratezza
che hai da poco subito
e dell'infamia d'una fiducia tradita?
Certo, il tuo patrimonio non è tanto esiguo
che il peso di così irrilevante infortunio
ti sommerga, ma ciò che tu sopporti
non è poi tanto raro: è capitato a molti,
è un caso ormai banale,
uno dei tanti guai
che tra infiniti riserva la sorte.
Non piangiamoci su: il dolore
non deve in un uomo bruciare più del giusto
e superare la ferita.
E tu, perché un amico non ti rende
un deposito sacrosanto,
sopporti a stento una briciola minima,
insignificante del più lieve dei mali,
e di bile ti brucia il fegato?
Un uomo, nato sotto il console Fonteio
e che alle spalle s'è lasciato sessant'anni,
può ancora stupirsi di queste cose?
Non ti è dunque servita a nulla o in meglio
tutta questa esperienza?
Grandi precetti nei libri divini
fornisce certo la sapienza
per vincere la sorte,
ma io considero felice anche chi,
avendo maestra la vita, della vita
impara a sopportare le molestie
senza studiare d'evitarne il giogo.
C'è mai un giorno di festa tanto solenne
da impedire a un ladro di entrare in scena,
da impedire perfidie, frodi,
di trar guadagno da crimini d'ogni sorta
e di procurarsi denaro
con la spada o il veleno?
Rari sono gli onesti: contali,
non superano il numero
delle porte di Tebe
o delle foci del fecondo Nilo.
Il tempo in cui viviamo
è peggiore dell'epoca del ferro
e alle sue nefandezze
la natura non ha trovato un nome
o un metallo dal quale derivarlo.
Noi invochiamo la fede di uomini e dei
con lo stesso clamore
dei postulanti, che a gran voce
applaudono Fesidio quando arringa.
Dimmi, vecchio fanciullino, non sai
che prurito mette addosso il denaro altrui?
non sai il ridere che fa
nella gente la tua ingenuità,
quando pretendi
che nessuno ti manchi di parola,
che tutti credano alla presenza di un nume
nei templi e sugli altari insanguinati?
Questi i costumi dei popoli arcaici,
prima che Saturno, deposto il suo diadema,
fuggendo impugnasse la falce contadina,
quando Giunone era ancora una verginella
e Giove un anonimo negli antri dell'Ida.
Allora oltre le nubi
non c'erano banchetti di Celesti,
col fanciullo troiano
e la bella sposina di Ercole
come coppieri, né Vulcano,
dopo aver tracannato il nettare,
si tergeva le braccia
affumicate nell'officina di Lipari.
Ogni dio pranzava da solo,
non c'era quell'orgia di numi
che esiste oggi e, lieto d'ospitarne pochi,
il firmamento pesava assai meno
sulle spalle dell'infelice Atlante.
Ancora non aveva avuto in sorte
il triste regno del profondo Averno
il torvo Plutone con la sua moglie siciliana;
non esistevan ruota, Furie, sasso
o pena del nero avvoltoio,
e senza re degli Inferi
ridenti erano le ombre.
La malvagità destava allora stupore:
si riteneva che fosse un delitto orrendo,
da espiare con la morte, se un giovane
di fronte a un vecchio non s'alzava in piedi
o non lo faceva un adolescente
di fronte a chi sfoggiava già la barba,
malgrado in casa sua
il ragazzo possedesse più fragole
e mucchi più grandi di ghiande.
Bastavano quattro anni in più
per incutere rispetto e la prima barba
s'accomunava a venerabile vecchiaia.
Oggi, se un amico non ricusa un deposito
e ti rende il vecchio sacchetto
con tutta la sua ruggine,
si grida a un miracolo d'onestà,
degno dei Libri etruschi, sino a esigere
il sacrificio di un'agnella inghirlandata.
Vedere un uomo onesto e intemerato
non è per me portento
diverso da un neonato bicefalo,
da pesci trovati con meraviglia
sotto un aratro o da una mula gravida;
e resto sbigottito
come se vedessi piovere pietre,
insediarsi sulla cima di un tempio
a grappolo d'uva uno sciame d'api
o rovesciarsi in mare
un fiume torrenziale
con strani gorghi e vortici di latte.
Ti hanno carpito con perfida frode
diecimila sesterzi:
di questo ti lamenti.
Cosa dovrebbe dire allora
chi ne avesse persi duecentomila,
dati sulla parola, come hai fatto tu?
o un altro che ne avesse persi ancor di più,
tanti da riempire a stento un forziere
stipato sino all'orlo?
Se non c'è nessun uomo che lo sappia,
è la cosa più facile del mondo
sbugiardare gli dei chiamati a testimone.
Guarda con che sicumera lo nega,
con che faccia impassibile t'imbroglia.
Giura per i raggi del Sole,
per i fulmini di Tarpeo,
per la lancia di Marte,
per i dardi di Apollo,
per le frecce e la faretra di Diana,
e per il tuo tridente, Nettuno, padre di Egeo;
e poi e poi vi aggiunge l'arco di Ercole,
il giavellotto di Minerva
e tutto l'arsenale delle armi celesti.
Se inoltre è padre, ecco che grida:
'Possa io divorare la testa
del mio infelice figliolo,
lessata in guazzetto nell'aceto di Faro'.
C'è chi dà la colpa di tutto
ai capricci della fortuna
e crede che il mondo si muova senza guida alcuna,
che i giorni e gli anni si susseguano
solo per legge di natura:
per questo s'accosta senza timore
a qualsivoglia altare.
C'è invece chi teme che al delitto segua la pena.
Costui crede che esistano gli dei,
però continua a spergiurare,
ragionando così fra sé:
'Iside faccia pure del mio corpo
quel che vuole e col suo sistro adirato
mi spenga gli occhi, purché anche accecato
possa tenermi quei quattrini
che sostengo di non avere:
valgono bene un po' di tisi,
una piaga purulenta, una gamba in meno.
Lada, ridotto in miseria, non esita
ad augurarsi la gotta dei ricchi,
anche se non ha bisogno di Antìcira
o di Archìgene: che gli serve infatti,
quando soffre la fame,
la gloria di un piede veloce
o un ramo d'ulivo di Pisa?
Per quanto sia terribile,
assai lenta è senza dubbio l'ira dei numi:
se vogliono colpire
tutti quanti i colpevoli,
quando mai giungeranno sino a me?
Ma potrei anche incontrare un nume indulgente:
a colpe come questa
di solito si accorda venia.
Molti commettono crimini uguali,
ma con diversa sorte:
c'è chi finisce in croce
e chi per quel delitto ottiene un trono'.
Così libera il suo cuore smarrito
dal terrore della sua colpa orrenda,
pronto a precederti, se lo costringi,
davanti ai sacri altari ed anzi è proprio lui
che a questi in malo modo ti trascina.
La faccia tosta in una causa ingiusta
tant'è più grande e più passa per molti
come innocenza. Recita il suo mimo
come lo schiavo in fuga
dello spiritoso Catullo;
e tu, sventurato, gridi a gran voce,
che potresti vincere Stèntore
o piuttosto come Marte in Omero:
'O Giove, ascolti queste cose
senza muovere labbro,
quando dovresti pur parlare,
anche se sei di marmo o bronzo?
Perché mai, sciolti i cartocci, poniamo
sulle tue braci sacri incensi,
fegato a pezzi di vitello
e bianche viscere di porco?
Come vedo, non c'è differenza da fare
tra le vostre icone e la statua di Vagellio'.
Ascolta invece che conforti
potrebbe darti chi
non ha letto i Cinici e i dogmi degli Stoici,
diversi solo per la tunica,
e chi non ha mai studiato Epicuro,
pago delle verdure del suo orticello.
Dai grandi medici si facciano curare
i malati in pericolo di vita:
tu puoi anche affidare le tue vene
a un discepolo di Filippo.
Se mi dimostri che mai è accaduto al mondo
un fatto così detestabile,
mi cucirò la bocca; lascerò
che ti percuota il petto a pugni,
che ti illividisca la faccia a suon di schiaffi:
quando capita una disgrazia,
si deve chiudere la porta
e dentro casa versar lacrime
sui quattrini perduti
con gemiti e lamenti più strazianti
che per un funerale;
nessuno in questi casi
può fingere il dolore,
limitandosi a lacerare l'orlo
della propria veste o a spremere gli occhi
per farne sgorgare una lacrima:
il denaro perduto
va pianto con lacrime vere.
Ma se tu vedi i tribunali pieni
di simili lamenti, se tu senti
che i debitori, dopo che la parte avversa
ha riletto dieci volte il contratto,
dichiarano che la cambiale è falsa
e non vale più di cartaccia,
mentre ad accusarli è la loro firma
e la gemma più bella di sardonica
custodita in uno scrigno d'avorio,
proprio tu, gioia mia,
credi d'essere un caso a parte,
perché figlio d'una gallina bianca,
e noi miserabili polli
nati da uova guaste?
Se volgi gli occhi a ben maggiori crimini,
tu soffri un torto che è un'inezia,
che non merita un travaso di bile.
Pensa al sicario prezzolato,
agli incendi dolosi
appiccati con lo zolfo a una porta
che in un attimo prende fuoco;
e pensa a quelli che da un tempio antico
trafugano le grandi coppe
dalla ruggine veneranda,
le offerte dei fedeli
o le corone donate dai re di un tempo;
e se di questi non ne vedi,
c'è di certo il ladruncolo sacrilego
che raschia la doratura a una coscia d'Ercole
o magari alla faccia di Nettuno,
che strappa a Castore una foglia d'oro:
[non credi che, abituato com'è,
esiterebbe a fondere tutto il Tonante?]
Pensa a chi fabbrica e smercia il veleno,
e a chi meriterebbe
d'esser gettato a mare
chiuso in una pelle di bue
con una scimmia innocente dal fato avverso.
Minima parte questa dei delitti
che Gallico, prefetto di città,
deve ascoltare da mattina a sera.
Se vuoi conoscere i costumi umani,
basta una sola casa:
restaci pochi giorni e, venutone via,
vedi se hai il coraggio di dirti infelice.
Chi si meraviglia se vede in Alpi
un gozzo gonfio o a Mèroe tette
più grosse di un poppante paffutello?
Chi si stupisce
degli occhi azzurri dei germani,
dei loro capelli biondi coi riccioli
impomatati in ciocche attorcigliate?
[Certo, perché per tutti loro
la natura è comune.]
Di fronte all'improvviso strepito
di una nube di uccelli traci
il guerriero pigmeo
afferra le sue armi in miniatura,
ma in un attimo, inferiore al nemico,
viene ghermito e trascinato in cielo
dagli artigli adunchi d'una feroce gru.
Se tu vedessi tutto ciò da noi,
scoppieresti a ridere, ma laggiù,
dove scontri del genere
sono teatro quotidiano,
nessuno ride, perché tutta la tribù
non supera in altezza un piede.
'Quella testa spergiura
per il suo scellerato imbroglio
non subirà dunque pena di sorta?'
Supponi che venga qui trascinato
in pesanti catene e che tu possa
mandarlo a morte come meglio credi
(può lo sdegno pretendere di più?):
il tuo danno rimane inalterato
e il deposito non ti verrà certo
restituito; per soddisfazione,
ahimè odiosa, non avrai
che il poco sangue di un capo mozzato.
'Ma la vendetta è piacere più dolce
della stessa vita...' Lascialo dire
agli imbecilli, a chi scoppia di rabbia
per un niente o per futili motivi:
[ogni pretesto, per quanto irrisorio,
è sufficiente a suscitarne l'ira].
Non lo dice Crisippo,
non lo dice Talete nella sua mitezza,
e neppure il vecchio che visse
vicino al dolce Imetto:
mai avrebbe dato all'accusatore
una goccia della cicuta
che ricevette nel crudele carcere.
[La saggezza, così feconda,
che a tutti insegna ciò che è giusto,
disseccherà in noi vizi ed errori.]
La vendetta è in ogni caso piacere
di gente meschina, di animi gretti
e malsani. Ne vuoi la prova?
nessuno gode più della vendetta
di una femmina. Ma perché tu pensi
che restino impuniti
quelli che la coscienza del male compiuto
rende costernati e che, col tormento in cuore
del carnefice, un occulto staffile
logora di sorde ferite?
Portare in petto notte e giorno
un testimone è pena atroce
e assai più cruda di quelle inventate
dai feroci Cedicio e Radamanto.
A uno spartano, incerto
se trattenere un deposito o no,
coprendo la sua frode con un giuramento,
la vate Pizia rispose che mai
sarebbe rimasto impunito:
voleva infatti sapere il pensiero
di Apollo e se il nume avrebbe assentito al crimine.
Dunque fu per paura, non per onestà,
che lui restituì il maltolto.
Tuttavia la profezia dell'oracolo
si dimostrò in tutto degna del tempio
e infallibile: morì infatti
con tutti i figli, la famiglia
e i parenti per quanto fossero lontani.
Questa la pena che attende chi ha solo
l'intenzione di compiere un delitto:
chi lo medita in segreto fra sé
è come se l'avesse già commesso.
Figurarsi poi se lo realizza.
Ansia perpetua lo divora,
anche quand'è l'ora di pranzo,
senza requie, così che non riesce a inghiottire
e il cibo gli si impasta nella gola,
secca come per un morbo, e tra i denti;
l'infelice sputa il vino che beve
e gli pare disgustoso persino
un Albano pregiato invecchiato negli anni;
e se poi gliene offri del migliore,
d'una ragnatela di rughe
gli si aggrinza la fronte,
come se avesse bevuto un Falerno inacidito.
Se per caso di notte
l'angoscia gli concede un breve sonno
e, dopo essersi girato e rigirato nel letto,
riposano le membra, all'improvviso
in sogno vede il tempio
e gli altari del nume profanato;
ma quel che è peggio,
nell'incubo che gli gronda sudore,
vede te, e la tua immagine, maestosa
e più grande di quella umana,
lo terrorizza e lo costringe
impaurito a confessare.
Eccoli: tremano e impallidiscono ad ogni lampo;
se poi tuona, al primo rombo del cielo
crollano esanimi, quasi che il fulmine
non cadesse a terra per caso
o per furia di venti,
ma per fare irato giustizia.
Non gli è venuto danno? E già paventano
con maggiore angoscia la prossima tempesta,
come se questo sereno fosse solo una tregua.
In più, se li assale un dolore al fianco
e la febbre non li lascia dormire,
pensano che a inviare al loro corpo
quei morbi sia una divinità sdegnata,
convinti che sian questi
i macigni e le frecce degli dei.
Non osano promettere una pecora
al santuario o una cresta di gallo ai Lari:
cosa infatti può sperare un colpevole
quando cade ammalato?
quale vittima non è più di lui
degna di rimanere in vita?
[Volubile e quasi sempre incostante
è la natura dei malvagi.]
Quando commettono un delitto
sono privi di dubbi: solo a crimine compiuto
cominciano a distinguere il bene dal male.
Ma, incapace di mutare e ormai incallita,
l'indole loro li riporta
alle pratiche che avevano condannato.
Chi mai ha posto un limite alla colpa?
chi mai ha ritrovato
la forza di arrossire,
una volta che l'abbia espulsa
dalla fronte indurita?
Esiste forse un uomo
che si accontenti di una sola infamia?
Il tuo furfante finirà
per porre il piede in qualche trappola
e dovrà soffrire l'uncino
del carcere duro, una rupe dell'Egeo
o gli scogli affollati d'illustri esiliati.
E allora tu potrai godere
dell'amaro castigo
inflitto all'uomo che detesti,
e soddisfatto riconoscerai,
finalmente, che non esiste nume
sordo e men che meno cieco come Tiresia. |
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Poemi italici. Come il santo gli mostrò che gli uccelli che Paulo aveva dipinti, erano veri e vivi anch'essi, e suoi sol essi. |
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