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Redazione
Sono Manuel figlio di Felice, contento di portar avanti il lavoro di mio padre.
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Johann Wolfgang Goethe
Francoforte 28 agosto 1749 Weimar, 22 marzo 1832
IL DIO E LA BAIADERA
Leggenda indiana
Il signore della terra, Mahadeva,
viene dall'alto per la sesta volta,
vuole essere una creatura terrena,
partecipare al dolore e alla gioia.
Ad abitare qui, a provare
ogni evento umano è disposto:
sia che voglia punire o perdonare,
deve guardare gli uomini da uomo.
E quando la città, da viandante, ha visitato,
spiato i grandi, i piccoli scrutato,
la lascia, per procedere oltre, dopo il tramonto.
Appena uscito dalla città, dove
ci sono le ultime case,
una ragazza perduta vi scorge,
bella, il trucco sulle guance.
«Salute, pulzella!» - «Aspetta,
esco subito, ti ringrazio dell'onore.» -
«E tu chi sei?» - «Una baiadera,
e questa è la casa dell'amore.»
Si muove a scuotere i cimbali a passo di danza,
lei sa muoversi in cerchio con tanta grazia,
si piega, si flette e gli porge il mazzo di fiori.
Lusinghevole alla soglia lo conduce,
con gesto vivace, dentro la casa.
«Mio bel forestiero, splendida di luce
sarà tra poco tutta la capanna.
Se tu sei stanco, sollievo ti voglio dare,
e ristoro ai piedi che ti dolgono.
Avrai tutto quello che desideri avere,
il riposo, o il piacere o il gioco.»
Lei mitiga dolori simulati con solerzia operosa.
Sorride il divino: osserva con gioia
un cuore umano nell'essere più corrotto.
E mentre esige da lei cure da schiava,
lei diventa sempre più serena,
nelle arti precoci della ragazza
poco a poco la natura si rivela.
Così s'innesta sopra il fiore
il frutto nello spazio di un attimo;
se nell'anima si piega il volere,
l'amore non sarà lontano.
Ma per saggiarla con prove sempre più severe,
lui che conosce gli abissi e le altezze,
sceglie gioia e terrore e acerbo affanno.
E le guance dipinte lui bacia,
la tormenta l'amore che prova,
prigioniera è la ragazza,
piange per la prima volta;
ai suoi piedi lei si prosterna,
non per piacere o profitto,
ahimè, e le agili membra
si negano a ogni servizio.
Così alla festa e alle gioie del talamo
il velo scuro, soave preparano
le ore notturne, il pregevole ordito.
Assopita tardi tra i giochi,
svegliata presto dopo breve riposo,
trova l'amatissimo ospite
sopra il suo cuore, morto.
Si getta su di lui gridando,
ma non risveglia l'uomo,
e le rigide membra portano
in tutta fretta al rogo.
Lei ode i sacerdoti, le funebri nenie,
delira e corre e la calca lei fende.
«Chi sei? Quale forza ti spinge al sepolcro?»
Lacera l'aria il suo grido,
cade a terra vicino al feretro:
«Rivoglio il mio sposo, io
anche nella tomba lo cerco.
Le sue membra, splendore divino,
in cenere si devono disperdere?
Mio! Fra tutti era mio!
Una notte soave, una solamente!»
Cantano i sacerdoti: «Portiamo gli anziani,
dopo lungo languire e un lento raggelarsi,
portiamo i giovani, prima che vi pongano mente.
Ascolta la saggezza dei tuoi
sacerdoti: non era il tuo sposo.
Da baiadera vivi i tuoi giorni
e così non hai nessun obbligo.
Al corpo segue solo l'ombra
nel regno dei morti silente:
segue lo sposo solo la sposa,
questo è dovere e gloria insieme.
Suona, tromba, per il sacro lamento.
Prendete, o dèi, fra di voi l'ornamento
dei giorni, il giovane tra le fiamme attendete!»
Così il coro che, spietato,
accresce l'angoscia del suo cuore;
lei con braccia spalancate
balza nell'ardente morte.
Ma il dio giovinetto si leva
verso l'alto, dalla fiamma,
e fra le sue braccia sospesa
lo segue anche l'amata.
Dei peccatori pentiti la deità si compiace;
gli immortali inalzano le creature del male
verso il cielo, con braccia di fiamme. |