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Pubblicata il: dicembre 25, 2017 |
Da: Giovanni G. A. Tozzi
Categoria: Racconti inediti e/o celebri | Totali visite: 838 | Valorazione
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L’idea sarebbe quella di scrivere il “Monologo di un macigno”.
Tutto parte da un’intuizione folle che ebbi guardando in basso dall’ultimo piano della tour Eiffel. Da lassù, gli uomini che vedevo a terra, passeggiare, erano anzitutto indistinguibili e sembravano persino avere tutti la stessa statura. In effetti tra un uomo molto basso ed uno molto alto, generalmente non ci sono che trenta centimetri di differenza. Chi li osserva da un’altezza di trecento metri, non può assolutamente avvedersene.
Allora mi venne spontaneo chiedermi se ad un osservatore fatto di puro spirito e di intelligenza infinita, e quindi collocato su di una tour Eiffel infinitamente alta, sia possibile percepire la differenza tra un ammasso inorganico di carbonio, calcio ed ossigeno (quale è il macigno) ed un ammasso più o meno degli stessi elementi, ma di natura organica (quale un maturo e colto gentiluomo). Non c’è garanzia che un puro spirito distingua le due entità.
Ora i gentiluomini hanno parlato fin troppo.
Facciamo, allora, parlare il macigno, la cui forma conserva memoria della sua origine e che, nelle sue viscere durissime, nasconde segreti ignoti a lui stesso.
Il macigno certo serba le tracce dell’immane botta vulcanica che lo espulse nel paesaggio, assieme ad una miriade di altri sassi, minerali e gas.
“Certo che, nella stessa struttura delle mie erculee molecole, rammento quei tempi, quando, dopo essere stato costretto per secoli da pressioni inimmaginabili ad essere parte di un tutto liquido ed incandescente, iniziai a raffreddarmi e a rapprendermi e poi ancora a scaldarmi fin quasi a fondere. Ero un pezzo considerevole delle viscere della terra. Dopo un tempo incalcolabile, all’improvviso mi sentii spinto ad attraversare a velocità crescente, una sorta di budello nel quale, ad un certo momento mi bloccai, sepolto da miliardi di tonnellate di roccia. Ma il calore, i terremoti, la pressione che mi frantumò in milioni e milioni di parti e mi modificò fino al midollo, erano una morsa implacabile. Sopravvenne il silenzio che durò per lunghe centinaia di secoli, ma all’improvviso, in meno di un minuto, dopo un boato colossale, che squarciò il fianco di una montagna altissima, fui sparato nel cielo azzurro della notte con una forza che pareva non avere fine. Invece tutto ha una fine e, dopo essermi librato nell’aria piena di gas, atterrai su una lontana spianata di rena, vicina al mare, che era ancora giovane.
Non più enormi forze compressive e temperature infernali, ma brezze felici e salmastre che mi raffreddarono in poche settimane e poi milioni di anni di venti impetuosi che mi resero quale sono oggi: un solido, enorme, levigato macigno grigiastro che cela informazioni di epoche remote, nel suo ventre profondo, bloccato dal suo stesso peso.
Migliaia di secoli di immobilità mi attendono, ma le stagioni si avvicendano attorno a me come una furia inutile. Sono così coeso che mi rido del gelo e del fuoco estivo. Sono probabilmente inutile, ma sono e sarò per un tempo lunghissimo che, però, non percepisco affatto. Oppure non sono e non sarò mai e mi limiterò a stare, a rimanere dove sono. Non percepirò mai la mia esistenza. Il senso della mia vocazione alla permanenza è cristallizzato in ogni mia molecola, la mia energia spaventosa è volta dentro di me ed imprigionata. Tutto sento stabile dentro di me, tutte le forze sono in equilibrio e questo vuol dire essere intimamente un macigno, destinato a rimanere tale.
Il mio passato dinamico è concluso. Un presente di forze concomitanti disegna un reticolo dettagliatissimo che mi imprigiona e mi dà il senso dell’eternità, ma nulla è davvero immortale: la stessa Terra perirà ed io con essa. Concludendo, esisto fortemente, nel tempo e nello spazio, sento solo la mia immane e regolatissima coerenza, fatta di forze forti che mai lascerebbero scorrere un rivolo di coscienza. Nulla fluisce in me. Tutto è fermo e bloccato. Per sempre.
Ma anche questo è un modo di essere.
Il monologo è sterile e ripetitivo, solo una cosa posso dirvi. Vi fu un tempo in cui un poeta che chiamano Ungaretti, attratto dalla mia mole, appoggiò cauto la sua mano morbida sulla mia scorza di quarzo ed io insensibile masso, puramente assorto nel mio essere di sasso, risuonai misteriosamente con quel essere sensibilissimo e mi avvidi che egli comprese la struttura che mi sequestra e, come un tuono, il poeta sentì echeggiare la botta enorme che mi scagliò nel cielo, lui vide la mia cieca vertigine nella caduta ed il mio rombante atterraggio rassegnato. Ora altro non so, se non che sono un immane macigno e mi scuso se vi ho tediato”.
Gianni Tozzi, Rodi Garganico – 30 luglio 2017 |
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Commenti degli utenti |
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Una pubblicazione proposta fra le tante presenti nel sito |
Se anche tu mi giurassi che non provi vergogna
dei tuoi propositi e sei ancora convinto
che sommo bene sia sfamarsi alla tavola altrui,
e sopportare affronti puoi
che all'infame mensa di Cesare
nemmeno Sarmento o Gabba, per quanto ignobili,
avrebbero subito, |
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