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Pubblicata il: ottobre 24, 2013 |
Da: Redazione
Categoria: Racconti inediti e/o celebri | Totali visite: 1356 | Valorazione
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Redazione
Sono Manuel figlio di Felice, contento di portar avanti il lavoro di mio padre.
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La bellezza della vita
di Paolo Petitto
Marcello prendeva la vita come veniva e ti coinvolgeva in ogni cosa con un entusiasmo che a chi non lo conosceva appariva sospetto, lievemente folle. Un giorno, era domenica, mi sveglia di soprassalto e mi ordina di prender su e accompagnarlo ad Arezzo.
«Ad Arezzo?» feci io stupito.
«Sì, ad Arezzo, che c’è di strano? Ieri ero là col motore, mi si è fuso, quel dannato, e adesso devo andarlo a prendere colla bianchina.»
Oh Cristo – pensai – che diavolo ci faceva mio fratello ad Arezzo? Mi stropicciai gli occhi, inforcai gli occhiali e lo osservai con un’attenzione che evidentemente non gli piacque.
«Be’, che hai da guardarmi così? Dài, vestiti, chè intanto scaldo il motore.»
I motori erano il suo forte. La sua passione. Quando si era fidanzato, col farfallone di famiglia che gli pendeva un po’ da un lato, aveva avvertito subito la sua futura compagna, in un dialetto che solo di malavoglia diveniva comprensibile, che prima veniva la moto, la sua motona gialla, e poi tutto il resto, lei compresa. Se le andava bene, bene,
se no, chi si è visto si è visto.
Non so come Claudia avesse accettato, forse le parve una battuta misogina ma divertente, di quelle che il sesso forte inventa per farsi forte, fatto sta che dopo due mesi eravamo tutti in chiesa. Tutti i parenti, intendo, e gli amici di questo pazzerello figlio della Romagna e dei cappelletti.
«Allora, ti muovi?» mi urlava incalzandomi.
«Arrivo, arrivo» gli risposi quella mattina, ancora intirizzito nonostante l’estate si fosse già fatta annunciare da una tiepida brezza. Mentre mi schiarivo le idee, mi venne in mente che due omoni come noi, nella bianchina, ci saremmo a pena stati, ma la moto …
«Vedremo, in qualche modo faremo …» fu la laconica risposta di Marcello.
Ci infilammo nella bianchina, che già dopo una ventina di chilometri cominciava a protestare sferragliando.
«Ma sei sicuro che reggerà il carico?» gli chiesi impensierito.
«Ma sì, ma sì, non ti preoccupare. E poi, perché preoccuparsi prima del tempo? Vedremo, faremo …»
Tutto così, mio fratello. Vedremo, faremo, bim bum bam e il gioco è fatto.
Durante il viaggio mi raccontò com’erano andate le cose, perché si era recato laggiù (non era proprio ad Arezzo, era lì vicino) e come si era fuso il motore. O meglio, credette di spiegarmi com’erano andate, perché fu tale l’ardore con cui me ne parlò che io non capii nulla, salvo che un piccolo prete a cui aveva dato un passaggio, terrorizzato dal fumo che gli era salito su su fino alle mutande, era caduto all’indietro e con la sottanona nera alzata più grande di lui era scappato gridando qualcosa contro il demonio. Se no Marcello non se ne sarebbe nemmeno accorto, del fumo: si era voltato e, invece di scendere dalla sella e spegnere il fumo, o perlomeno allontanarsi per prudenza, si era messo a ridere come un bambino, vedendo quel pipistrello cattolico che si dimenava come un elfo pagano. Rideva anche adesso mentre mi raccontava farfugliando la scena, degna – dissi io – di un film comico. Non approfondii, e tra un sigaro e l’altro, di quelli il cui fumo ti si attacca ai peli del naso almeno per due giorni, arrivammo a destinazione.
La moto non c’era. Al suo posto un cane nero ci abbaiava fastidiosamente contro. Marcello gli fece due occhiacci così e il cane indietreggiò, senza smettere di ululare come un ossesso.
«Non fa niente, è buono» ci gridò a sua volta un contadino che doveva essere il padrone. «Ogni volta che passa qualcuno, o una macchina, abbaia, non abbiate paura.»
Marcello gli chiese se sapesse qualcosa della sua moto gialla. Il contadino ridacchiò, pur notando l’espressione maldisposta di mio fratello, e dopo aver tossicchiato alquanto come per farsi pregare e creare un po’ di suspense («Bisogna capirli – mi disse poi Marcello – dev’esser stato l’evento della giornata.»), ci indicò un monticello poco distante, dritto a noi, dove qualche balordo aveva scarrozzato la moto nel tentativo, vano, di rimetterla in sesto.
Ringraziammo senza sorridere e ci avviammo. La trovammo ai limiti di una scarpata e appena la vide riapparve sulla faccia di mio fratello l’espressione solita, fiduciosa ed entusiasta. Si tolse le scarpe e si avventurò, non proprio prudentemente, sul pendio. Perché si fosse tolte quelle scarpacce che stavano infestando i prati primaverili non saprei, forse per amore del pericolo, perché così aumentava la probabilità di ferirsi, anche se la pellaccia dura dei suoi piedi non temeva che le ortiche di Romagna, come diceva lui. Mi tolsi le scarpe anch’io, per solidarietà, e lo aiutai a portar su quella carcassa color reseda che Marcello si ostinava a voler chiamare motocicletta. Forcelle, tamburi e carter erano irriconoscibili, ma lui sorrideva, sorrideva, sorrideva per averla ritrovata ed io non fiatavo, anche perché il sollevarla a mano e poi il trascinarla nel baule della bianchina mi costò, in termini di ossigeno, un buon capitale polmonare. Vista la situazione, non resistetti:
«Be’, e adesso che si fa, lo vedi che in due davanti non ci stiamo!?»
Marcello volle provare lo stesso, ma dopo due o tre chilometri durante i quali la manopola del gas rischiava ad ogni buca di tagliarmi netto il naso, gli abbaiai un “ferma!” e lui, di malavoglia, frenò. Dopo aver pensato tutte le soluzioni possibili, arrivò a mettermi nel baule con lei (la moto) con un braccio semialzato (per non ammaccarla) e semisdraiato su un fianco per non uscire da quella ridicola posizione fetale. Chi ci avesse visto non avrebbe certamente potuto fare a meno di compatirci come due pazzi, non tanto per aver caricato una moto, quanto per averlo fatto con una bianchina.
Volle il cielo che presso Bagno di Romagna ci fermò la polizia.
«E cos’è quello?»
«Mah … - si disimpegnò Marcello – vede, è che dobbiamo trasportare quella moto e, vede, non ci stavamo in due, così ho detto a Valentino, mio fratello … »
«Piacere» feci io con uno stereotipato sorriso.
«No no, macché, voi scherzate, è mai la maniera di …»
«Senta, ispettore – fece Marcello avendo notato le mostrine da assistente – non è poi così grave, se lei prova a mettersi col braccio così, vede? la moto non sporge più di …»
«Ma che, insiste? Ma mi faccia il piacere! Ma guarda te se … aspettatemi qui.» e indicò la pietra miliare, che sembrava farci l’occhiolino. Il poliziotto, felice di potersi arrabbiare una volta tanto per un sacrosanto motivo, prese la macchina e si diresse verso la casa cantoniera lì vicino. Marcello non ci pensò due volte, mi spinse dentro senza tante cerimonie e pigiò l’acceleratore come più non si poteva. Tutto ballava nel baule, e la mia testa non la sentivo più.
Dire che Marcello andasse forte, in macchina o in moto, era un eufemismo. Quando vedeva un vecchio o un bambino attraversare la strada sulle strisce, mio fratello accelerava perché – diceva senza l’aria di giustificarsi – così accelerano pure loro e ci guadagnamo tutti. Le curve secondo lui non erano state fatte per necessità geografiche, ma per soddisfare la sua instancabile brama di radere i pendii. Questa era la sua filosofia, e assecondarla non era sempre cosa da poco.
La tiepida brezza divenne calda e Marcello scalpitava. Il sole lo rendeva ancor più irrequieto. Claudia cercava di fargli passare le mattane col suo comprensivo e pur caparbio amore coniugale, ma un bel giorno lui si alzò e decise di investire tutti i suoi soldi, a dir vero mica tanti, in un piccolo “bagno” a Lido di Volano. Anche investire è un eufemismo, diciamo pure buttar via. Bella la sabbia, carina la località, ma il bernoccolo degli affari Marcello proprio non ce l’aveva e, invece di ristrutturare il piccolo ma fatiscente impianto, si perdeva a sfornare mousse per i parenti e gli amici, che non venivano se non nei weekend. Passò tutto maggio a pulire (si fa per dire: girava con la ramazza e perdeva due ore a parlare con la dottoressa-guardia-medica, tre ore a recuperare il gatto del vicino-rivale, quattro o più a sorbire il sole sulla sdraio più sgangherata (ma abbastanza rappresentativa) dello “stabilimento”, come lo chiamava per darsi un po’ d’importanza di fronte agli amici.
Il primo cliente era atteso con ansia. Lui aveva aperto cinque o sei ombrelloni, a metà giugno, per fingere un inizio di stagione, ma più per invidia nei confronti del vicino che per attirare il fatidico, agognato, fantomatico primo cliente. Che, chissà come, si fece vivo sul serio.
Si fece vivo alle due, in pieno sole, mentre Marcello e il suo lavorante – un ragazzino figlio d’un suo amico di caserma dei tempi che furono – mangiavano con lena affannata. Guai a toccargli gli spaghetti, a Marcello: era un rito, e come tale nessun profano poteva interromperlo.
«Scusi, potrei avere una sdraio e un ombrellone?» - fu la domanda dello sventurato, che non sapeva di essere il primo di una piccola schiera di coraggiosi.
Marcello non si scompose, continuò imperterrito a riempirsi la bocca con la forchetta a mo’ di vanga, muggì sommesso come per scacciare una mosca e rispose coi denti impastati al ragù:
«Senta, adesso non è il caso, quando ho finito ne riparleremo.»
Io ero al banco, mi ero improvvisato barman e avrei potuto benissimo inaugurare lo “stabilimento” col primo cliente. Marcello era così, voleva fare tutto lui e se stava officiando con la pastasciutta non se ne parlava neanche. Mi impose con occhi d’acciaio il silenzio; vi lascio immaginare la faccia dell’avventuroso avventore.
Un’altra volta, mentre il vicino poteva vantare l’occupazione di ben sei delle dodici file di ombrelloni, Marcello, che ne aveva a malapena una, superò se stesso. Vedemmo avanzare un burbanzoso giovanotto, di quelli che in spiaggia ostentano la giacca di Armani sotto un catenone a crocifisso made in Korea, stranamente educato nel chiedere una sdraio al padrone. Marcello lo fissò indulgente, poi tutt’a un tratto cambiò espressione e gli fiatò:
«No, io a lei non gliela do, la sdraio.»
«E perché?» fece l’armaniano.
«Perché lei un momento fa ha pisciato sulle mie petunie, lì davanti, e non può dire che non è vero perché l’ho vista io in persona.»
Marcello era così, e come si faceva a non volergli bene?
Ora fa il camionista, forse perché solo così riesce a placare la sua ansia di girare, di scovare, di correre il mondo. Dopo aver fatto tutti i mestieri e nessuno, si è quietato muovendosi di continuo. Al mare chiamava gli amici e ci rimetteva sempre, era (ed è) la classica persona che dà molto più di quanto riceva e non per questo si sente defraudata, anzi trova sempre nuovi stimoli per inventare la bellezza della vita, parole che, come motore, rimbalzavano senza noia e senza vergogna nella sua bocca. Nessuno in famiglia si stupiva nel vederlo ritornare dai suoi viaggi in moto con la testa rabberciata (le fasciature naturalmente se le faceva da solo) o con una gamba offesa, e nemmeno quando impugnava il manubrio dopo una frattura multipla all’omero. Sfrecciava col gesso che gli piegava il braccio, ed anche gli appuntati, alla moda militare e deferenti, lo salutavano.
(Testo inviato da Paul) |
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«Al di là del portone che cosa sento,
che cosa risuona sul ponte?
Lascia che al nostro orecchio
nella sala risuoni la canzone!»
Fu il re a parlare, il paggio corse,
tornò il ragazzo, e il re ad alta voce: |
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