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Pubblicata il: giugno 13, 2013 |
Da: Redazione
Categoria: Racconti inediti e/o celebri | Totali visite: 1806 | Valorazione
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Redazione
Sono Manuel figlio di Felice, contento di portar avanti il lavoro di mio padre.
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Sulle
pareti, le macchie lasciate in modo indelebile dall'umidità erano state
doverosamente nascoste con locandine e con vecchie fotografie in bianco
e nero. Il proprietario dell'appartamento (un piccolo bilocale che
avevo trovato ad un prezzo decisamente economico) aveva, in tal modo,
risparmiato sull'imbiancatura che, ad una vista appena meno
superficiale, sarebbe senza dubbio risultata molto opportuna. Poco
sopra la spalliera del letto, una logora cornice, intagliata nel legno e
intaccata dai tarli, ospitava la stampa di una locomotiva a vapore che,
avvolta nel suo fumo bianco, era all'imbocco di una galleria e sembrava
sferragliare alla massima velocità sui binari, piegata in una curva
malsicura. Quando il mio pensiero indugiava a quella rappresentazione,
mi sembrava di avere chiaramente in testa l'immagine di quella che, fino
a quel momento, era stata la mia vita. Una continua tensione verso una
svolta (che era ben rappresentata dall'insicurezza della curva) in cui
ogni singolo respiro, ogni sbuffo fumoso, ogni sforzo estremo si perdeva
all'interno di una scura galleria da affrontare con tutta l'incertezza
del caso.
Durante il giorno la camera era scarsamente illuminata: la piccola
finestra, scavata nel muro, non si trovava certo nella posizione ideale
per raccogliere la luce del sole ed era, per di più, provvista di una
pesante inferriata a X che si protendeva leggermente verso l'esterno e
che, nell'insieme, mi sembrava essere piuttosto originale. La sensazione
complessiva, d'altra parte, somigliava molto a quella che deve provare
un carcerato all'interno della sua cella, almeno così credo. Anche
l'arredamento, a dir poco spartano (qualcuno dei nostri vecchi potrebbe,
con un eufemismo, definirlo "essenziale" e magari, dati i tempi,
addirittura azzardare un elogio all'essenzialità) contribuiva a
conferire alla stanza quel senso di misera prigionia che poco fa ho
descritto.
Alla sinistra del letto, su un tavolino aggiustato alla bella e meglio e
traballante (era stato necessario infilar sotto una gamba un ritaglio
di cartone per mantenerlo fermo) c'era ancora il pezzo di carta con cui
l'anziano padrone di casa aveva ritenuto opportuno ricordarmi le
scadenze dei pagamenti, la somma che avrei dovuto versare ogni fine mese
("con assoluta regolarità, guai a sgarrare ancora", aveva minacciato
cercando di raddrizzarsi sulla sua schiena ingobbita e agitandomi di
sotto il naso l'indice della mano sinistra) nonché il regolamento che
avrebbe dovuto disciplinare la mia condotta ("almeno finché lei sarà mio
ospite", aveva precisato).
Dall'ultima volta in cui il vecchio aveva fatto la comparsa nel mio
appartamento, sventolando quel foglietto davanti ai miei occhi con un
movimento nervoso, erano passati poco più di venti giorni. Da allora non
avevo avuto più l'onore di incontrarlo, essendo egli costantemente
rinchiuso nei suoi appartamenti al piano di sotto. Nonostante ciò, avevo
raggiunto la certezza che il vecchio possedesse la copia delle chiavi
degli alloggi dell'intero stabile (infatti tutto l'edificio -una
palazzina di due piani con due appartamenti per piano- era di sua
proprietà). L'idea mi era balenata già nei giorni seguenti il mio
insediamento lì, confermata dal fatto che, al mio rientro in casa,
trovavo alcuni oggetti fuori posto; sospetto che trovò, molto più tardi,
un decisivo riscontro quando mi toccò di udire un'animata discussione,
accesasi proprio di fronte alla mia porta, tra l'anziano proprietario e
una sua giovane inquilina che l'aveva sorpreso a frugare nel cassetto
del suo mobiletto.
"La giovane, inviperita, sembrava in preda ad una crisi isterica e la
potevo immaginare mentre, tutta rossa, con la camicetta sbottonata quel
tanto che le permettesse di mostrare il generoso decolleté, minacciava
fra strilli e singhiozzi, verosimilmente trattenuti, di rivolgersi alla
"pubblica autorità". Di contro, il vecchio aveva prima incassato il
colpo in silenzio, con tutta probabilità sorpreso dall'imprevista e
rabbiosa irruzione della malcapitata nella stanza; poi, dopo aver
raccolto tutta la sua esperienza, aveva preso speditamente la via della
porta, adducendo una successione di pretesti del tutto spropositati e
lasciando qua e là intendere un malcontento per il "fracasso"
proveniente dall'appartamento, soprattutto durante le ore notturne. La
discussione, a seguito di queste ultimissime considerazioni, andava
assumendo un tono sempre più violento, tanto che le minacce della
ragazza si fecero ancora più serie. E come avvertii il rumore di un
oggetto di vetro in frantumi, seguito da un imbarazzante silenzio,
temetti il peggio. Tuttavia, quando aprii la porta, non vi trovai più
nessuno…
Eva rideva. Pensavo, calato nella penombra tremante diffusa dalla
candela, a quello spasmo convulso, incontrollato che s'impadronisce
delle persone nel momento in cui ridono. Il bicchiere di vino rosso,
l'ultimo versato (avevo rispolverato per l'occasione i miei vecchi
calici di cristallo), era stato vuotato in un sol colpo. La bottiglia
mostrava malinconicamente il fondo mentre su di essa giocava il riflesso
guizzante della fiamma.
"Eva, tesoro, così non va!", cercavo, con tono di rimprovero (che nella
circostanza mi riusciva alquanto difficile), di rispondere alle sue
risa.
"Eh, no, proprio no! Così no… e perché?", chiedeva lei con una smorfia
falsamente ingenua, appoggiandosi sul gomito destro, protendendo da
quella parte il peso del corpo e cominciando quasi ad oscillare. Fece
appena in tempo a concludere quella frase, quando proruppe di nuovo in
una fragorosa e insistita risata. Stavolta, però, come scossa da un
improvviso capogiro, buttò la testa sul tavolo, tacque per un attimo e
cominciò a mugugnare tra sé qualcosa.
"Credo che possa bastare, per questa sera. Il bagno, sai dov'è. Datti
una rinfrescata" e, accesa la luce, con la fiamma che s'allungava ancora
dallo stoppino, la presi per un braccio, l'aiutai a rialzarsi e la
seguii con lo sguardo intanto che lei, ondeggiando e scotendo i lunghi
capelli neri, cercava la direzione della "toilette".
"Per oggi può bastare", ripetevo continuamente. "Maledizione! Così proprio non va!".
Parole al vento. Un senso di sconforto si era impadronito del mio animo.
La osservai, infine, con sguardo rassegnato. "Beata impertinenza!". Eva
dormiva placidamente, il trucco del viso disfatto, i capelli sparsi sul
cuscino. Sopra la sua testa la locomotiva continuava,
caratteristicamente, a sbuffare, inclinata verso la galleria, nel
consueto atto di anticipare la curva.
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